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Discussione: dal mito alla storia: gli antichi racconti di Olimpia

  1. #16
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    Sacralità e simbologia nei Giochi


    L’olivo era la pianta riservata per antonomasia ai vincitori.

    “ Secondo la leggenda tramandataci da Pindaro, nella sua terza Ode Olimpica, la pianta di olivo selvatico era stata piantata nell’Altis (il bosco di Olimpia) dallo stesso Eracle il quale, nello stabilire la legge, il tempo ed il recinto per celebrare i Giochi da lui stesso istituiti, aveva constatato con rammarico che in Val Cronion non esisteva pianta che fosse degna di poter coronare la fronte dei vincitori.
    Allora si ricordò di aver visto l’oleastro nel paese degli Iperborei quando, per comando di Euristeo, vi era andato a dar la caccia alla cerva dalle corna d’oro e dagli zoccoli di bronzo. Tant’è che presto vi si recò di nuovo….
    Osserva Pindaro che se Eracle nella sua prima impresa – quella della 'fatica' – era stato spinto da necessità, nella seconda invece fu spronato dal suo stesso genio.
    Stabilì dunque che i rametti di olivo fossero tagliati dall’albero sacro mediante un coltello d’oro….”


    ( tratto da “Storia delle Olimpiadi moderne” di Raniero Nicolai – 1952).



    l'imperatore Teodosio consegna in premio una corona di ulivo




    Sopra la facciata levigata di un disco di bronzo, conservato in Olimpia tra gli ex voto del tempio di Era, si trova inciso il seguente monito: “Olimpia è luogo sacro, chi oserà mettervi piede con la forza delle armi sarà punito con il marchio del sacrilegio”.
    L’iscrizione si fa risalire all’886 a.c. e non è dato sapere se tale regola fu rispettata per il secolo successivo, ossia fino al 776 a.c. anno da cui, con la registrazione della vittoria del corridore Corebo, si fa iniziare oltre alla classica cronologia Olimpica anche l’era storica della Grecia antica.
    Probabilmente la violazione avvenne una volta sola, durante il lungo millennio in cui si susseguirono l’una dopo l’altra le 293 Olimpiadi precedenti al severo Editto con cui Teodosio il Grande ne troncò bruscamente la serie.


    Analizziamo ora quest'ultima importante circostanza, decisiva per la conclusione dei Giochi, prima di riallacciarci alla questione posta dall'iscrizione presente sullo scudo
    Dovremmo collocare l’epilogo di cui cennato con la cosiddetta “Legge de paganis”, che secondo alcuni non sarebbe stata emanata nel 394, come vuole la storiografia più accreditata, ma due anni dopo.
    La cosa non è di poco conto circa il movente di quanto avvenuto. Non avrebbe infatti credibilità la tesi che sostiene che l’editto medesimo, emanato genericamente contro le superstizioni pagane, sarebbe stato solo suggerito a Teodosio dal vescovo di Milano, Ambrogio.
    In realtà l’antefatto vuole che l’imperatore romano, per vendicare un proprio ufficiale che aveva perso la vita durante i moti di una protesta, aveva adunato il popolo in un circo ove un gruppo di pretoriani aveva poi compiuto una strage spietata, uccidendo quasi settemila spettatori.
    A seguito di ciò era stato fatto a Teodosio espresso divieto, da parte del futuro S. Ambrogio, di entrare nella basilica milanese fintanto che non dimostrasse d’essersi pentito di quanto era nelle proprie responsabilità.
    Il grande Teodosio si umiliò dunque dinanzi al vescovo di Dio ed emanò una legge nella quale stabiliva non doversi eseguire alcuna pena capitale se non decorsi 30gg. dalla pubblicazione di una sentenza.



    S.Ambrogio converte Teodosio il grande




    Non è certo però se questa legge – chiamata “De paganis” – fosse poi stata diretta contro gli stessi Giochi olimpici (di natura religiosa pagana), sancendone di fatto la fine.
    In tutto questo periodo – ovvero dall’886 a.c. fino alla promulgazione della rammentata legge De paganis – la tregua divina, cui fa riferimento l'iscrizione commentata in premessa, sarebbe stata violata con certezza nel 364 a.c., il primo anno della 104^ Olimpiade, durante la convulsa fase che seguì la “battaglia senza lacrime” e che precedette quella di Mantinea, nella cui occasione la morte del condottiero Epaminonda dimostrò quanto effimera fosse la presunta potenza di Tebe.


    ( liberamente tratto da “ Palingenesi di Olimpia “ di Raniero Niccolai – 1944).



    la morte di Epaminonda
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  2. #17
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    Lo Stadio





    Nell’antichità erano sostanzialmente tre gli impianti sportivi, perlomeno di più classica concezione, adibiti allo svolgimento delle gare sportive e dei quali ritroviamo resti ed ampie fonti di informazione: il ginnasio o palestra, lo stadio e l’ippodromo.
    Del primo, in cui si praticavano tra le altre le gare di lotta, si è già parlato nei primi post, mentre sull’ippodromo riservato alle corse con i cavalli e le bighe ci soffermeremo in seguito.
    Inutile però sottolineare come sia lo stadio - che tutt’oggi è il ritrovo principale per gli sport più diffusi nonché per concerti, esibizioni e svariate manifestazioni di ogni genere - a sollecitare l’immaginazione collettiva nel ricordo e nei racconti di alcune delle più entusiasmanti vicende sportive del presente e del passato.
    Il termine attuale, che ha dato il nome all’impianto sportivo comunemente utilizzato per incontri di calcio, gare di atletica leggera ed altre manifestazioni sportive e non, trae origine dal greco stadion, che era un'unità di misura corrispondente a meno di 200 metri. Con essa si effettuava la prima ed inizialmente unica gara degli antichi Giochi, ovvero quella di corsa stabilita appunto sulla distanza di uno “stadio”, che nel caso particolare dello stadio di Olimpia pare risultasse leggermente più lunga di quella standard (192 mt. in luogo di 182).
    La pratica di standardizzare le piste da corsa ad una lunghezza di 180-200 metri fu poi seguita dai Romani. La capacità umana di sostenere la massima velocità è infatti ritenuta diminuire dopo circa 200 metri di sforzo; un fatto che può essere osservato anche nelle gare atletiche moderne, per cui le distanze successive sono considerate di velocità prolungata (400mt.), mezzofondo (principalmente 800 e 1500mt.) e fondo, sia pur con diverse sfumature e denominazioni dovute al progresso della scienza dell’allenamento ed alle migliorate capacità organiche del fisico umano.
    Quello di Olimpia è senza dubbio il più antico stadio di cui ci sia giunta notizia ma in diverse altre città antiche sono stati rinvenuti resti di stadi greci e romani, tra cui possiamo citare lo stadio di Messene e quello di Domiziano a Roma.
    Completamente modificati ma egualmente in parte ispirati ai criteri dell’antichità, sono stati costruiti alcuni stadi dell’epoca moderna tra cui lo Stadio "Panatenaico" di Atene (dal greco il significato letterale è "stadio di tutti gli Ateniesi"), in cui nel 1896 si svolsero i primi Giochi Olimpici dell’epoca moderna.
    Particolarmente in quest’ultimo, proprio perché ad Atene e perciò molto vicino ad Olimpia in termini spaziali, fa effetto scorgere alcune lontane similitudini con criteri ispiratrici di oltre 2 millenni precedenti, che tuttavia lo hanno reso moderno e funzionale alla fine del XIX secolo e, sia pur con rifacimenti di strutture e modifiche edilizie, ancora attuale più di un secolo dopo.




    Lo stadio Panathinaiko in Atene, già sede delle prime Olimpiadi dell'era moderna nel 1896, unico stadio al mondo costruito interamente con il marmo preso dal monte Pentelico






    Come accade spesso al giorno d’oggi con demolizioni e nuove costruzioni degli impianti sportivi cittadini per l'adeguamento a modificate esigenze, così anche nel lungo periodo che caratterizzò gli antichi Giochi Olimpici si sarebbero succeduti in Olimpia tre stadi, che per ragioni pratiche gli stessi archeologi e storici menzionano con l’ordinale romano di Stadio I, II e III.
    Del più arcaico Stadio I, in auge per un periodo relativamente breve e dello Stadio II che lo ha sostituito si hanno soltanto notizie tramandateci dalle fonti storiche ma non si possiede praticamente alcun reperto e non sono pertanto visibili i resti.
    Quello che tuttora è visitabile nell’itinerario archeologico dell’antica Olimpia è lo Stadio III, ovvero quello presumibilmente in funzione fino all’ultima edizione dei Giochi antichi.






    Lo stadio di Olimpia, che riproduce una delle fasi più antiche nella storia dello stadio greco, pur se costruito in ambiente pianeggiante è caratterizzato dalla pista situata ad un livello più basso rispetto al terreno circostante.
    La struttura dello stadio di Olimpia subì spostamenti piuttosto considerevoli nelle varie fasi di sviluppo: quello oggi visibile è indicato come III stadio di Olimpia e sembra appartenere al IV sec. A.C.
    Da un rilievo altimetrico condotto sulla zona dello stadio, risulta che quello che viene definito come II stadio di Olimpia, datato V sec. A.C, era contornato da pendii di terra di entità assai minore rispetto al successivo.
    La costruzione dello Stadio III accentua, con maggior opera di livellamento, il livello dei terrapieni laterali ai lati lunghi della pista.



    (tratto da “Lo stadio di Epidauro” di Roberto Patrucco – 1976)




    i resti dello Stadio III di Olimpia






    Lo stadio arcaico (Stadio I), ancora molto semplice e senza spalti, al livello inferiore si estendeva probabilmente lungo il terrazzo dei Tesori; il suo lato corto occidentale, dove c’era la linea di arrivo, dava sul grande altare di Zeus.
    Alla fine del VI o agli inizi del V sec. A.C., lo stadio fu forse spostato leggermente verso est , con la pista situata però ad un livello inferiore e gli spalti dei lati lunghi più regolari (Stadio II).
    Verso la metà del V se. A.C. , lo stadio venne nuovamente spostato di mt. 82 verso est e di mt. 7 verso nord ed il suo lato occidentale chiuso (Stadio III). Secondo scavi recenti lo Stadio III risale agli inizi del V sec. A.C. , mentre lo Stadio II apparteneva all’età arcaica.
    La pista dello Stadio III aveva una lunghezza di mt. 212,54 ed una larghezza di mt. 28,50 circa; la distanza tra le linee di partenza e di arrivo è di mt. 192,28. Lo stadio poteva contenere 45.000 spettatori (un’enormità per l’epoca – n.d.r.) che sedevano direttamente per terra.



    ( tratto da “Olimpia: guida del Museo e del Santuario” di A. e N. Yalouris – 1987)




    l'austero e suggestivo antico stadio di Messene





    La maggior parte degli stadi in Grecia – racconta Pausania – era provvista di rialzi artificiali. Dopo un periodo relativamente assai lungo, furono costruiti dei posti a sedere in pietra, circondati da mura e colonnati.
    La lunghezza della pista era appunto di uno “stadio” ovvero 600 piedi (ca. 182 mt.) ma, poiché l’unità di misura non era uguale dappertutto, la lunghezza dello “stadio” variava da luogo a luogo.
    Il più semplice degli stadi greci fu quello di Olimpia. Il terreno ai piedi della collina di Crono era livellato a forma di parallelogramma, lungo ca. 212 mt. e largo in media 23.
    Questo parallelogramma era delimitato da una serie di lastre di pietra: circa 1 metro all’interno correva un canale scoperto che si apriva ad intervalli regolari in vasche anch’esse di pietra. Tale canale, alimentato da un condotto, forniva l’acqua di cui avevano bisogno gli atleti e gli spettatori, esposti come erano al sole cocente senza possibilità di riparo.
    La pista per la corsa era circa 10 piedi (poco più di 3 metri) sotto il livello dell’Altis.
    Gli spettatori potevano prendere posto solo sui fianchi della collina di Crono e nella aperta pianura che, secondo i calcoli, poteva accogliere dalle 20.000 alle 30.000 persone.
    Più tardi, probabilmente dopo la battaglia di Cheronea (338 a.C.), fu costruito, a circa 40 mt. dalla pista, un rialzo sul quale potevano trovare posto in piedi dai 40 ai 45.000 spettatori.
    Per tutto il tempo in cui lo stadio fu operativo non ci furono posti a sedere. Questi ultimi, forse in legno, erano riservati a pochi privilegiati ufficiali di gara, mentre gli spettatori restavano in piedi o seduti a terra.
    La scoperta più interessante di Olimpia fu quella della linea di partenza e di arrivo delle corse. Queste linee consistevano in lastre di pietra larghe 18 pollici (poco più di 20 cm.) e si estendevano per quasi tutta la larghezza della pista. Ogni pietra era divisa ad intervalli di ca. 4 piedi (mt. 1,22) da cavità quadrate in cui forse venivano piantati dei pali. Ogni due cavità vi erano altrettante scanalature parallele di circa 7 pollici ( cm. 18), tagliate nella pietra: probabilmente servivano a segnare il posto dei piedi dei corridori.
    La distanza tra le due estremità della pista era di mt. 192,27 che corrisponde a 32, 045 piedi olimpici. Il piede olimpico fu determinato da Ercole, che misurò lo stadio con il suo piede e per tale ragione lo stadio di Olimpia è un po’più lungo rispetto agli altri stadi.
    La ragione per la quale le linee di pietra sono eguali su entrambe le estremità della pista è ovvia: nella “corsa dello stadio” il traguardo era situato nella parte opposta al punto di partenza; pertanto, nel diaulos e in altre corse che richiedevano un certo numero di stadi, gli atleti vi facevano ritorno.



    ( tratto da “ Sport e Giochi nell’Antica Grecia” di E. N. Gardiner - 1956)




    un'inquadratura dello stadio di Domiziano a Roma
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  3. #18
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    L’ Ippodromo





    - nella foto sopra: l'area dove sedevano i giudici di gara, nei cui pressi correvano i cavalli -






    Era il luogo destinato agli esercizi equestri e alle corse coi carri. In origine era assai semplice. Pausania ce ne da una chiara idea, descrivendoci l’Ippodromo di Olimpia formato da una serie di poco elevate alture, con i sedili per gli spettatori disposti sul pendio delle stesse.
    Accorrendo ai Giochi di Olimpia una folla sempre maggiore, venne alzato in faccia alle colline un terrapieno o argine per disporvi i sedili. Sotto l’Agnampto (loggiato che prende il nome dall’architetto che lo costruì) vi erano gli stalli per cavalli e carri. L’arena era divisa da un muricciolo poco alto ma assai largo, sul quale collocavano le statue di Giove, Apollo e altri numi.
    Su questo muro di divisione, chiamato ^spina^, stavano pure gli Ellanodici ed il magistrato incaricato di annotare il numero dei giri di corsa. All’estremità della spina stavano le mete, quella verso il loggiato era ornata dalla statua di ippodamia ed era la meta della vittoria.


    ( tratto da “La ginnastica in Grecia” di Felice Valletti )




    Un centauro cerca di portare via Ippodamia (sul vaso chiamata Laodamia), mentre Piritoo e Teseo resistono per difenderla. Dettaglio da un cratere apulo a figure rosse, ca. 350-240 a.C. (British Museum).






    Ecco la descrizione dell’Ippodromo di Olimpia da parte di Pausania:


    Dentro l’Alti, verso l’ingresso delle pompe è il cosiddetto Ippodromo, luogo che per lo spazio di circa un plettro è cinto da una maceria. In questo, una sola volta l’anno, possono entrare le donne, le quali ad Ippodamia sacrificano e fanno altre cose in suo onore.
    Dicono che Ippodamia si ritirò in Midea dell’Argolide poiché Pelope, per la morte di Crisippo, era particolarmente adirato contro di lei; dicono di aver portato in dono, per un oracolo, le ceneri di Ippodamia in Olimpia.
    Sul confine delle statue che gli Elei ersero con le multe degli atleti è quello che chiamano ingresso segreto e per esso gli Ellanodici ed i combattenti devono entrare nello stadio………………
    ….Traversato lo stadio, la dove siedono gli ellanodici, vi è il luogo consacrato alle corse dei cavalli e la ^Mossa^. Questa ha la figura di una prora di nave, il cui rostro è rivolto al corso; dove la prora si unisce al portico di Agnampto, ivi diviene larga. Sulla punta del rostro è un delfino di bronzo sopra un regolo………..
    "

    ( tratto da “ Descrizione della Grecia” di Pausania, tradotta da Antonio Nibby ).



    Il sonno di Endimione di Anné-Louis Girodet Triosan (Musée du Louvre)



    Lo stadio è preceduto da un posto in cui si recano gli atleti e che si chiama barriera. Si vede qui una tomba che gli Elleni dicono di essere di Endymion.
    Al di là di questa parte dello stadio, in cui si mettono i direttori dei Giochi, c’è un posto destinato alle Corse dei cavalli. Questo posto è preceduto da un spazio che si chiama barriera (la Mossa - n.d.r.) e che, per la sua forma assomiglia alla prora di una nave.
    Al punto in cui questa barriera unisce il Portico di Agaptus, essa si allarga in due parti, lo sperone e il becco della prua sono sormontati da un delfino di bronzo.
    Le due parti della barriera hanno più di 400 piedi di lunghezza e sui essa ci sono gabbie a destra o sinistra, tanto per i cavalli da sella che per quelli che per quelli di attacco (tiro).
    Queste gabbie sono estratte a sorte tra i combattenti. Davanti ai cavalli ed ai carri c’è un cavo, da un capo all’altro, che serve da sbarra e li mantiene dentro le loro gabbie.
    Verso il mezzo della prua c’è un altare di mattoni che si ha cura di imbiancare ad ogni Olimpiade. Su questo altare c’è un’aquila in bronzo che ha ali spiegate e che, per mezzo di una molla, si eleva e si fa vedere da tutti gli spettatori, nello stesso tempo che il delfino allo sperone si abbassa e distende fino sotto terra.
    A questo segnale si lascia il cavo dalla parte del Portico e presto i cavalli avanzano verso l’altra parte in cui si è fatto altrettanto.
    "

    ( tratto da “ La vie privée des anciens “ di René Menard )



    Da quel momento spetta poi ai cocchieri dimostrare la loro abilità ed cavalli la velocità.



    Diana ed Endimione





    Vediamo cosa ancora ci tramanda Pausania riguardo alla curiosa leggenda di Tarassippo.


    Avendo l’Ippodromo uno dei lati più esteso, sopra questo è un rialto di terra: verso il fine del rialto vi è l’altare di Tarassippo, il terrore dei cavalli.
    La figura dell’ara è rotonda; allorché i cavalli passano presso di essa sono subito colti da un forte timore senza che se ne spieghi la causa; al timore segue il turbamento, così rompono i carri e quei che li governano restano feriti. Perciò i cocchieri fanno sacrifici e supplicano Tarassippo ad esser loro propizio.
    I Greci non sono concordi riguardo a Tarassippo, per cui alcuni dicono invece trattarsi del sepolcro di un uomo indigeno e bravo nell’arte dei cavalli e gli assegnano il nome di Olieno.
    Dicono, tra l’altro, che Pelope fece di questo luogo un Eroo vuoto a Mirtillo e gli sacrificò sanato dall’ira dell’uccisione, chiamandolo poi Tarassippo.
    Un egiziano disse che Pelope aveva sepolto in questo luogo che chiamano Tarassippo un qualcosa ricevuto in dono da Anfione Tebano.
    A mio parere (di Pausania - n.d.r.,), la più verosimile delle tradizioni è quella che sostiene trattarsi di un soprannome di Nettuno Equestre
    ."

    ( “ Descrizione della Grecia” di Pausania – trad. A. Nibby).



    nella foto sotto: galleria d'ingresso allo stadio
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  4. #19
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    La torcia olimpica







    la torcia olimpica ai Giochi di Mosca 1980







    La torcia olimpica che tutti conosciamo è quella portata a mano e di corsa in staffetta dai tedofori, con frazioni pre determinate, fino all’accensione sul braciere olimpico per dare inizio alle competizioni.
    Essa in realtà, così come concepita, è un rituale delle Olimpiadi moderne ben diverso dall’antica corsa con le torce .


    Nella pratica dei Greci antichi non c’era nulla che giustificasse la torcia olimpica da portare in giro per mezzo mondo come simbolo dell’internazionalismo olimpico.
    Nell’antichità le corse con la torcia erano staffette puramente locali: squadre di uomini nudi, con la fronte ornata di diadema, portavano per le strade da altare ad altare torce accese su impugnature metalliche.
    Facevano parte di un rituale religioso in senso stretto i diademi, gli altari come punti di arrivo e l’onore culminante da assegnare al vincitore di collocare la sua torcia sull’altare del Dio che veniva celebrato.
    Inoltre, mentre i Giochi moderni cambiano sede ogni quattro anni (e parrebbero dunque giustificare un trasferimento della fiaccola olimpica – n.d.r.), quelli antichi non abbandonarono mai Olimpia.
    Infine, e questo è il punto più notevole, le Olimpiadi antiche furono tenute ogni quarta estate senza interruzioni, nonostante le guerre e gravi difficoltà politiche in vari periodi, fino almeno al 261 d.C.
    Quando i Giochi furono istituiti, nel 776 a.C., i veri Greci erano considerati in tutti i sensi “elleni”. I Giochi erano pertanto panellenici piuttosto che internazionali. Il nome “Greci” ci viene da quello dato loro dai latini “graeci”, non siciliani o egiziani o siriani. Parlavano tutti greco, veneravano gli stessi Dei negli stessi modi, partecipavano ai Giochi Olimpici in condizioni di parità.


    ( tratto da “I Giochi Olimpici” di Finley e Pleket – 1980).





    braciere olimpico dei Giochi di Atene 2004







    Cerchiamo allora di appurare da cosa abbia potuto trarre spunto questa tradizione che ormai stabilmente precede l’inizio delle edizioni dei Giochi moderni.


    Olimpia non era ne una città ne un villaggio e non era neppure un luogo abitato, fatta eccezione per le abitazioni dei sacerdoti e degli addetti alla custodia del Santuario.
    Era soltanto il luogo dove si tenevano esclusivamente i Giochi: il distretto interno del luogo di culto si chiamava Altis.
    Ecco una nuova conferma dell’origine dei Giochi in una festa funebre, dopo che Pausania fece derivare questo nome dalla parola greca “alsos”, cioè tomba. In mezzo al campo sacro si trovava la tomba di Pelope e, sotto il regno di Ifito, sarà eretto un altare in onore di Zeus.
    Su questo altare i sacerdoti depositavano le loro offerte animali e vegetali; accatastavano delle fascine e tenevano pronta una torcia. A questo punto, un gruppo di giovani selezionati prendevano posizione a ca. 200 mt. dall’altare per la partenza di una corsa.
    Colui che arrivava prima all’altare aveva diritto all’insigne onorificenza di accendere il rogo del sacrificio.
    Questo fu l’inizio dei Giochi Olimpici, un inizio pieno di toccante dignità.
    Solo questo tipo di corsa fu eseguita per i credenti e fedeli della divinità durante le prime 13 Olimpiadi. I vincitori della prova provenivano da Elis, Micene o Pisa (in Grecia – n.d.r.).
    In seguito furono attirati gli Spartani che avevano stabilito un’alleanza con gli Elleni e la festa di una provincia divenne la festa di tutto il Peloponneso.
    La preparazione militare degli Spartani forniva alle competizioni atleti ben allenati: dopo la loro prima vittoria alla XV Olimpiade, gli Spartani acquistarono una forte superiorità nel corso dei due secoli seguenti che fu intaccata solo dai Crotoniani.
    Con il crescere della rinomanza dei Giochi l’Altis si ricopriva di edifici magnifici che si riempirono di opere d’arte e di ricchi tesori provenienti da offerte. I ladri che erano attirati in questo luogo costrinsero gli Elleni a circondare l’Altis di una alta muraglia.
    "


    ( tratto da “ Des hommes et des records – Histoire de la performance a travers les ages” di Walter Umminger – 1962).





    antico braciere olimpico







    La corsa con le torce in antichità non era dunque una scenografia allestita per trasportare la fiaccola olimpica con cui ardere il braciere e rinnovare il giuramento, dichiarando nel contempo aperti i Giochi ma una vera e propria gara di corsa, che prendeva il nome di lampadedromia.


    La lampadedromia trae la sua origine da riti sacri non agonistici. Pan avrebbe aiutato gli Ateniesi a Maratona ed in suo onore era indetta ad Atene, ogni anno, una corsa con le fiaccole.
    Si tratta di una corsa a staffette tra diverse squadre, in genere ciascuna composta da una tribù di una medesima città. Il testimone era costituito da una torcia che passava al proprio compagno di squadra, a sua volta in corsa o pronto allo slancio.
    Coloro che fossero riusciti a tenerla accesa avrebbero ricevuto un’idria dipinta contenente olio.
    Pausania, nella sua Periegesi, ci descrive una lampadedromia che si svolgeva ad Atene, in cui la bravura consiste nel saper mantenere accesa le faci correndo, poiché se la face si estingue, benché si giunga primi, non si conquista la vittoria.
    La medesima gara poteva esser disputata pure a cavallo o in corsa individuale.
    La Lampadedromia non era ricompresa nel programma dei Giochi Olimpici antichi ma molto praticata durante le feste Panatenee.


    ( tratto da “Homo ludens” di Marco Fittà e Dante Padoan – 1988).





    medaglia commemorativa di una gara di staffetta







    In pratica potremmo considerare l’antica gara con le torce come l’antesignana della moderna corsa a staffetta.
    Ecco infatti la spiegazione del susseguirsi della gara grazie al testo tradotto da un’iscrizione su di un blocco di marmo bianco ritrovato a Delo.


    “ …Coloro che partecipavano alla gara percorrevano una frazione della distanza complessiva, recando nella mano sinistra una fiaccola accesa che consegnavano nella destra del compagno di squadra il quale, come fanno ancor oggi i corridori di staffetta, per guadagnar tempo aveva già preso l’avvio.
    Tale trasmissione della fiaccola continuava via via sino all’ultimo staffettista: vinceva la squadra il cui ultimo componente fosse arrivato primo al traguardo, spesso rappresentato da un altare, a condizione però che la fiaccola fosse ancora accesa.



    ( tratto da “Iscrizioni agonistiche greche” di Luigi Moretti, 1953).





    Paavo Nurmi accende il braciere olimpico ai Giochi di Helsinkj 1952







    Di questa gara abbiamo notizia che si svolgesse non solo durante le prime edizioni dei Giochi Olimpici ma nel corso di Giochi e Feste tra i più popolari, sia in Grecia che nell’antica Roma.
    Era d’uso durante le feste religiose ed in particolare nelle Prometee, nelle Panatenaiche, nelle Bandinee e nei misteri Eleusini, riguardo ai quali è giunta notizia di una festa dedicata proprio alla corsa con le fiaccole.
    Interessante e suggestiva, per esempio, la descrizione della competizione che possiamo leggere nel brano sottostante, inerente ai Giochi Istmici:


    Viene la notte che non interrompe i Giochi istmici. Una corsa è attesa e impazientemente desiderata e vuole come complice le tenebre più profonde: è la corsa con le torce, la lampadedromia.
    Le torce sono fatte di tralci di vigna strettamente legati oppure, affinché la fiamma fosse più rapida e splendente, di rami di pino stretti e annodati nei flessibili gambi di giunchi e di papiri.
    Un fuoco viene acceso sull’altare di Demetra, la grande Dea: qui i concorrenti prendono le loro torce. Appena fatti pochi passi non è più possibile distinguerli o riconoscerli. I favoriti della fortuna si perdono nell’ombra e neanche i più fedeli amici possono seguirli e incoraggiarli.
    Lo spettacolo è molto bello ma altrettanto strano; si va con un certo disordine, gli Ellanodici più severi perdono tempo ad ammonire ma, nel tumulto, non li vedono ne li sentono. Il buon umore di tutti è sufficiente a mantenere la lealtà; si ride e ci si diverte, ciononostante le torce scintillano, passano e qualche volta rischiano di spegnersi per l’impeto furioso dei corridori.
    Sembra una corsa di stelle e lo stesso cielo, adesso cosparso di fuochi senza numeri, traversato dalla polvere luminosa della Via Lattea, sembra sorridere ai Giochi.


    ( tratto da “ Les spectacles antiques” di L. Augé de Lassus – 1888).




    Di seguito ancora qualche curiosità.


    La corsa con le torce era molto diffusa in tutta la Grecia e la sua popolarità si conservò fino ai tempi dei Romani.
    Ad Atene c’erano corse con le torce alle Panatenee, alle Epitafie, alle Tesee e, ai tempi di Socrate, fu istituita una corsa con torce a cavallo nella festa di Bendis.
    La gara aveva luogo di notte e due erano le tipologie principali: individuale ed a squadre.
    Nella prova individuale, i concorrenti partivano dall’altare di Prometeo nell’Accademia e correvano attraverso la città; chi arrivava primo con la torcia accesa era proclamato vincitore.
    Gli sforzi dei partecipanti per mantenere la torcia accesa durante il percorso erano spesso causa di interminabili risate tra gli spettatori e – racconta Aristofane – che, mentre passavano attraverso la stretta porta d’ingresso in città, il popolaccio del quartiere dei vasai li motteggiava scurrilmente ad alta voce.
    Nella corsa a squadre, invece, gli atleti delle varie compagini erano dislocati lungo il percorso: il primo consegnava la torcia al secondo quando lo raggiungeva, il secondo al terzo e così via fino all’ultimo. La squadra che riusciva a portare la torcia ancora accesa al traguardo era dichiarata vincitrice.



    (tratto da “Sports e Giochi nella Grecia antica” di E. Normann Gardiner – 1956 ).





    fiaccola olimpica alle Olimpiadi invernali disputate a Torino nel 2006

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    il tempio, la statua e l'altare di Zeus





    Tra i monumenti e le vestigia che adornavano Olimpia i più importanti erano probabilmente quelli facenti parte del gruppo architettonico e scultoreo dedicato al sovrano dell’Olimpo, che comprendeva il tempio, la statua e l’altare di Zeus.
    La loro collocazione in quell'area rispondeva alla particolare sacralità attibuita ai Giochi che, come già raccontato nei primi post, erano appunto consacrati alla massima divinità dei Greci.
    Le rovine del tempio, come ci appaiono oggi, formano una terrazza elevata da cui si domina l’Altis, ovvero il bosco sacro di Zeus. In questo tempio, considerato il più vasto e ricco non solo dell’Altis ma di tutto il Peloponneso, si riteneva che spiritualmente dimorasse il Giove Olimpico, Signore degli Dei.
    Sia il tempio che la statua erano stati fatti erigere con il bottino riportato dagli Elei a Pisa (città greca e non quella italiana, n.d.r.), fra il 468 ed il 457 a.C., quando gli Spartani consacrarono uno scudo d’oro per celebrare la vittoria di Tinagra.



    sotto: le rovine del tempio oggi






    di tutti gli edifici dell’Altis il più imponente ed il più celebre era senza dubbio il tempio di Zeus Olimpico.
    Nonostante le numerose mutilazioni conseguenti all’incendio e ai terremoti siamo ancora in grado di farci un’idea precisa, grazie ai resti esistenti, della sua architettura.
    Questo monumento fu costruito a sud ovest dell’Altis ed è difficile precisare in quale epoca.
    Pausania ci dice che fu costruito con il bottino riportato dagli Elei nella guerra nella quale distrussero Pisa e tutte le città divise che si erano sollevate.
    Nell’anno 456 a.C. iniziò la costruzione di questo tempio su progetto di Libone, architetto Eleo.
    I lavori non subirono interruzioni tranne che all’epoca in cui la statua di Zeus fu piazzata nel tempio. Una modifica fu necessaria, su indicazione di Fidia, nella disposizione della cella che noi vediamo più lontana.
    Le fondamenta del tempio si compongono di quattro grosse mura infossate ad un metro sotto il suolo dell’Altis e che s’innalzano ad un’altezza di 3 mt. al di sopra del livello del suolo. Sopra di esse sono costruiti i muri della città e le parti dello stilobate, sui quali si poggiano le colonne delle gallerie laterali. Gli intervalli sono stati coperti da un riporto che dissimula l’aspetto esteriore delle fondamenta e forma in tal modo un’elevazione artificiale di tre metri, che sostiene il basamento del tempio.
    L’edificio è dell’ordine dorico, esastilo (ha cioè 6 colonne) e periptero: circondato da altre 13 colonne in tutti i lati, compresi quelli d’angolo.
    Le proporzioni di questo monumento erano considerevoli e di poco inferiori a quelle del Partenone; in realtà Pausania gli attribuisce dimensioni forse maggiori di quelle reali
    . "



    ricostruzione in plastico del tempio di Zeus, sulla base dell'analisi dei reperti e della descrizione di Pausania






    " Coloro che volevano contemplare la statua di Zeus dovevano salire alle gallerie superiori per delle scale a spirale.
    Questa parte della cella ci dimostrerebbe sotto il profilo architettonico di esser stata costruita su progetto di Fidia. Sembra comunque certo che la statua di Zeus fu scolpita da Fidia dopo quella di Atena al Partenone, cioè dopo l’anno 438 a.C.
    L’artista era già anziano ma concentrò in quest’opera immortale tutta la potenza della sua arte
    ”.

    ---------------------


    Che Fidia, considerato il più grande scultore ed architetto dell’antichità, sia stato l’autore della statua lo si evince anche dall’epigramma scritto e posto sotto i piedi di Zeus: “ mi fe Fidia di Carmine Ateniese”.




    Zeus di Fidia


    " nessuna traccia tuttavia è giunta a noi di questo ammirevole capolavoro, che gli antichi inclusero nelle sette meraviglie del mondo.
    Secondo alcuni, dopo l’abolizione dei Giochi Olimpici la statua fu trasportata a Costantinopoli, dove scomparve a seguito - pare - dell’incendio della dimora di Lausos, nella quale era stata posta.
    Qualche antico autore ci ha lasciato delle dettagliate descrizioni di questo capolavoro.
    Apprendiamo quindi che l’altezza era di circa 13 metri e che era fatta in oro e avorio cesellato con ornamenti di ebano e pietre preziose. Il Dio seduto sul trono teneva nella mano destra una Nike (vittoria) in avorio e nella mano sinistra uno scettro sormontato da un’aquila d’oro; la sua testa era cinta da una corona d’oro che imitava i raggi dell’olivo selvaggio.
    Il meraviglioso trono era ornato da diversi soggetti scolpiti o dipinti. Questi dipinti furono eseguiti da Panemo, che era fratello o nipote (secondo altri) di Fidia e fu anche suo collaboratore.
    Dinanzi a questo capolavoro, pare che il generale romano Paolo Emilio abbia tremato di emozioni e pronunciato le memorabili parole:
    “ malgrado la fama di cui gode Olimpia, la vista ne supera ogni attesa” , aggiungendo che solo Fidia era riuscito a rappresentare lo Zeus tramandato da Omero sotto forma sensibile.
    "



    ricostruzione fantastica della statua di Zeus, opera di Fidia






    l’altare di Zeus


    " aveva forma di elisse, di cui il grande asse era nella direzione del Kronion.
    Il suo primo basamento aveva un circuito di 125 piedi olimpici, cioè circa 40 metri e l’altare verso la fine del II secolo d.C., nell’età di Pausania (da cui attingiamo le notizie – n.d.r.), era alto 7 metri.
    Le vittime venivano sacrificate nella parte inferiore dell’altare, chiamata prothysis.
    Le giovani e le donne, all’epoca in cui non erano escluse da Olimpia, potevano salire sino al protysis, mentre ai soli uomini era consentito di salire sulla parte superiore.
    In cima all’altare si bruciavano le cosce delle vittime. "



    ( i brani nel virgolettato sono tratti da “I Giochi Olimpici nell’antichità” di Lambros e Politis, 1896)




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    Ai piedi del Cronion



    Il monte Cronion in realtà non è propriamente un monte e neppure una collina bensì un’altura di 150 mt. ca. sovrastante il sito archeologico di Olimpia, sulla riva destra dell’Alfeo ed ai cui piedi sono state rintracciate molte preziose vestigia e resti monumentali all'epoca consacrati alle divinità a sottolineare e ribadire l’aspetto sacrale dei Giochi.


    " Ai piedi del monte Cronion si innalza l’Heranion, il Tempio di Era.
    Secondo l’opinione prevalente, il Tempio, in stile dorico, fu costruito nel 650 a.C. ed allora aveva soltanto cella e pronao; si riteneva che nel 600 a.C. fossero stati aggiunti un opistodomo ed un colonnato esterno ma ricerche condotte successivamente sembrerebbero piuttosto indicare che il Tempio sia stato costruito in una sola volta, intorno appunto al 600 a.C., secondo un piano unitario.
    Questo edificio è uno dei più antichi esempi dell’architettura religiosa monumentale in Grecia, perlomeno tra quelli conservati fino ai giorni nostri.
    Il basamento del Tempio ed i grandi pilastri della cella sono in calcare conchiglifero (lumachella), mentre la parte superiore dei muri era in mattoni crudi e la trabeazione per la maggior parte in legno, con un tetto di terracotta.
    Le colonne, pure originariamente in legno, furono a poco a poco sostituite, nel corso dei secoli, con colonne in pietra.
    Sul fondo della cella si conserva il basamento su cui erano installate le statue in pietra di Zeus e di Era. "


    l'Heranion




    ............................

    " I tesori, costruiti uno dopo l’altro, sono piccoli templi a forma di megaron dedicati da città greche e soprattutto da colonie.
    Vennero costruiti sul terrazzo naturale che si estende ai piedi del Cronion, poco al di sopra dell’Heranion.
    Il più antico è il Tesoro di Sicione, mentre i più recenti risalgono alla prima metà del V secolo.
    Pausania riporta il nome di dieci Tesori ma, attualmente, si possono vedere i ruderi di dodici tempietti, di cui solo cinque sono stati identificati con certezza: i Tesori di Sicione, di Selinunte, di Metaponto, di Megara e di Gela."



    (tratto da “Olimpia: Guida del Museo e del Santuario di Athanasia e Nicolaos Yalouris” 1987).




    " …E’ in Olimpia il Tesoro chiamato dei Sicioni, dono di Mirone, loro tiranno; fu questo edificato da Mirone dopo che questi ebbe vinto col cocchio nella XXXIII Olimpiade.
    Nel Tesoro fece due talami, uno dorico e l’altro jonico, lavorati in bronzo. In questo Tesoro sono tre dischi, quanti sono appunto quelli che arrecano al combattimento pentatilo. Vi è uno scudo coperto di bronzo che nella parte interna è variato da pitture; un elmo e dei gambali insieme con lo scudo.
    Contiguo a Sicionio è il Tesoro dei Cartaginesi, lavoro di Potéo, di Antifilo e di Megacle ed ivi doni.
    Il terzo e quarto Tesoro sono degli Epidani, ……i Sibariti ancora edificarono un Tesoro che è a lato di quello degli Epidani. Presso quello dei Sibariti è il Tesoro dei Libj di Cirene ed in esso sono gli imperatori romani. "

    ( tratto da: “Descrizione della Grecia di Pausania” tradotto da A. Nibby, 1818).



    il Metroon





    " Vicino alla terrazza dei Tesori c’è un tempio dorico di umili dimensioni: è il Metroon II, culto di Rea, madre degli Dei, uno dei più antichi di Olimpia. A sud del Tempio, infatti, era situato in altri tempi un altare dedicato alla madre degli Dei.
    Il Tempio, del quale sono rimaste le fondamenta e qualche dettaglio architettonico incastrato nelle costruzioni bizantine, sembra risalga al IV sec. A.C. e fu in seguito rimaneggiato dai Romani.
    Le colonne ed il resto dell’edificio, costruito in pietra di Poros, furono all’epoca romana impiastrate da uno spesso strato di stucco che ricoprì le pitture primitive delle quali si vede ancora brillare qualche traccia, nei posti in cui è scomparso lo stucco.
    Al tempo di Pausania il Tempio conservava ancora il suo antico nome ma la statua di Rea non figurava più: vi erano state ammucchiate statue di imperatori romani ed alcune di queste sono state ritrovate al momento degli ultimi scavi. "


    ( tratto da “I Giochi Olimpici nell’antichità” dal Rapporto Ufficiale di Atene 1896 di Lambros e Politis dell’Università di Atene).
    Ultima modifica di Tonymusante; 18-04-2017 alle 12:08 PM
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  7. #22
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    Zani









    " Tra il Metroon e l'entrata dello Stadio si vedono ancora dei piedistalli in pietra che una volta erano sormontati da statue di Zeus in bronzo e che nel gergo del paese erano dette Zani.
    Queste statue non erano state erette in onore dei vincitori, come quelle che decoravano l'Altis; esse erano state costruite con il ricavato delle multe inflitte agli atleti per infrazioni al regolamento dei Giochi e dovevano servire di lezione a tutti i Greci, che in tal modo sapevano che nessuno avrebbe dovuto pagare per ottenere una vittoria ad Olimpia.
    Qualora i multati si fossero trovati nell'impossibilità di pagare le multe, la città dalla quale erano originari doveva versare l'intero importo, pena l'esclusione dalla partecipazione ai Giochi Olimpici.
    "


    ( tratto da " I Giochi Olimpici nell'antichità" - Rapporto Ufficiale di Atene 1896 di Lambros e Politis )









    " Dal Metroon, andando allo Stadio, havvi (trovasi - n.d,r.) sulla via a sinistra, verso l'estremità del Monte Cronio, un rialto di pietre presso lo stesso monte e dei gradini in esso. Presso il rialto sono statue in bronzo di Giove.
    Queste furono fatte con i denari ritratti dalla multa imposta agli atleti che hanno mancato alle leggi dei Giochi: sono statue chiamate col nome di Zani (Giovi).
    I primi, in numero di sei, furono eretti nella Olimpiade XCVIII (98^ - n.d.r.).
    Imperciocchè [...in tale occasione - n.d.r.] avvenne che Eupolo tessalo corruppe con denari quelli che erano venuti a combattere al pugilato, (quali) Agetore Arcade, Pritani Ciziceno e, con essi, Formione da Alicarnasso che aveva vinto nell'Olimpiade precedente.
    Questa è, secondo ciò che dicono, la prima ingiustizia commessa dagli atleti nei Giochi ed Eupolo e quelli che da lui aveano ricevuto doni furono puniti dagli Eoli.
    Due di queste statue sono opere di Cleone Sicionio, le altre quattro che seguono non è noto chi le abbia fatte.
    Eccettuate la terza e la quarta, sulle altre vi sono scritte elegie.
    La prima delle elegie vuol dimostrare che la vittoria in Olimpia si deve ottenere non con i denari ma con la velocità dei piedi e la forza del corpo.
    L'elegia che trovasi sulla seconda dice nei confronti di chi sia stata eretta la statua; per onore della divinità e della religione degli Elei e per servire di timore agli atleti che trasgrediscono le leggi.
    Sulla quinta e sulla sesta (statua) l'iscrizione in una è diretta tutta a lode degli Elei ed a mostrare la pena dei pugili; nell'ultima poi è scritto che le statue servono d'insegnamento a tutti i Greci, affinché nessuno dia denari
    per riportare la corona olimpica.
    Dopo Eupolo dicono che Callippo Ateniese, combattendo al pentatlo, comprò con denari quelli che doveano combattere contro di lui e che ciò avvenne nella Olimpiade CXII (112^ - n.d.r.).
    Essendo stata imposta dagli Elei la pena a Callippo ed a quei che combatterono con lui, gli Ateniesi mandarono un tal Iperide per persuadere gli Elei a perdonar loro la multa.
    Avendo questi negato loro la grazia, gli Ateniesi usarono questa soverchieria verso di loro per non dare denari e astenersi dalle feste Olimpiche, finché il Dio di Delfo non ebbe intimato loro che non avrebbe più dato responso alcuno (mediante l'Oracolo - n.d.r.) fintanto che non avessero pagato la multa agli Elei.
    Laonde, allorché pagarono, furono fatte a Giove statue anch'esse in numero di sei.
    ".


    ( tratto da " Descrizione della Grecia di Pausania" - tradotta da A. Nibby )
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